mercoledì 2 dicembre 2009

Sterilità feconda: un cammino di grazia




“Signore perché proprio a noi?” Questa è la domanda che scaturisce dal cuore dei coniugi che si trovano a dover affrontare il problema della sterilità. “Dove sono i figli che Dio vuole donarci?” In una società in cui il figlio è un diritto, la sterilità diventa un male incurabile…Marco Griffini (genitore adottivo e fondatore insieme con la moglie Irene Bertuzzi di Ai.Bi., Associazione Amici dei Bambini, di cui è ancora oggi presidente) in questo testo rivoluziona il pensiero comune e ci apre gli occhi per farci vedere in modo del tutto diverso la sterilità. A partire dal racconto di storie di vita vissuta e da riflessioni su alcuni personaggi biblici (Sara, Rachele, Anna), l’autore ci guida alla riscoperta della sterilità che diventa fecondità attraverso la Grazia.
Infatti, soltanto quando gli sposi si rendono conto che è proprio attraverso il dono della sterilità che sono chiamati a vivere la loro fecondità, la sterilità diventa Grazia, e i coniugi si sentono chiamati da Dio a collaborare alla realizzazione della creazione attraverso l’adozione. Le coppie sterili sono chiamate ad accogliere la vita di chi, essendo già nato, sta sperando di rinascere a nuova vita per diventare finalmente un figlio amato, per essere salvato dall’abbandono. Attraverso l’adozione si riesce a vivere una diversa forma di fecondità che sfocia nell’accoglienza di un bambino destinato dalla Provvidenza "proprio a noi".

Daniela

2 commenti:

Unknown ha detto...

bene. Lo rilancio anche sul mio blog...
grazie

Stefania Falsini ha detto...

Dalla lettura di questo post ho l'impressione che si corre il rischio di intendere l'adozione come l'unico possibile segno di fecondità della coppia fisicamente sterile. Trovo più affine al mio modo di sentire il taglio proposto da don Renzo Bonetti nel suo libro "La fecondità degli sposi oltre la fertilità" e quanto riportato nel link al termine del post.
Provo di seguito a spiegarmi meglio...
Non penso sia giusto considerare l'adozione come la tanto agognata cura di quel male apparentemente incurabile che è la sterilità. Mi viene in mente una frase della canzone "Temporale" di Jovanotti che dice "La cura è spesso nascosta dentro alla malattia"...
L'adozione non può essere una soluzione in sé, al più è una possibile risposta alla vocazione coniugale. Penso che una coppia che adotta un figlio non necessariamente può definirsi feconda. Bisogna sempre vedere cosa ha generato questo gesto. Potrei elencare almeno dieci atteggiamenti patologici ed egoisti che possono scaturire nel "nobile gesto".
Così come non penso sia scontato parlare di fecondità di fronte ad una famiglia con figli biologici, magari numerosi.
La differenza la fa sempre il percorso che ci ha portato a compiere una scelta di vita piuttosto che un'altra e, se si tratta di un percorso di verità e di reale conoscenza di sé, ben vengano le più disparate espressioni di sé.
In ogni caso, perché la scelta dell'adozione sia realmente un segno della fecondità della coppia non può che essere un punto di arrivo di un faticoso e consapevole viaggio interiore, come singoli e come coniugi. Credo che sia importante camminare a lungo nella condizione di sterilità fisica cercando di abitare quel luogo di dolore di cui spesso essa è portatrice.
Altrimenti l'adozione rischia di essere la prima risposta che ci viene in mente di fronte al vuoto lasciato da quei figli biologici che non arriveranno; grande macigno che rende inaccessibile quella grotta bellissima ricca di riflessi di luce meravigliosi tra zone di ombra forse angoscianti ma tutte da scoprire che è l'animo umano.
E ai sacerdoti che si trovano sempre più spesso ad asciugare le lacrime di coppie disorientate dall'aver appreso di essere fisicamente sterili mi sento di dire che due sono i comportamenti che non aiutano: uno, collegato a quanto descritto sopra, è il proporre con troppa immediatezza e un pizzico di superficialità la prospettiva dell'adozione come consolazione alla disperazione del momento e l'altro è l'atteggiamento compassionevole inteso non nell'elevato significato etimologico del patire-con ma come pietismo e commiserazione sterili. Ora è il caso di usare questa parola.
E, infine, se il problema inizia ad essere così diffuso, perché non spenderci qualche parola in più durante i corsi di preparazione al matrimonio?